Presentazione
Sceneggiatura:
E noi che scriviamo serviamo a così poco: anche
noi illusi di combattere il sistema con i paradossi,
che sono sì l’unico modo per penetrare l’essenza
delle cose (e questa è di Oscar Wilde, non ci sono
santi), ma peccato che la gente non li capisce,
o si ferma al paradosso in sé, o si incazza perché
il paradosso è violento, e insomma, in ogni caso
quanto è più distante, quanto si allontana sempre
di più l’essenza delle cose...” Tiziano Sclavi
“
Il tempo di morire” è il titolo
di una canzone che i miei coetanei chiamano ostinatamente
“Motocicletta”. Ed è un paradosso, perché per congedarsi
dalla vita, comunque vanno le cose, non abbiamo
che un attimo. Il tempo che precede quell’attimo,
ci piaccia o no, è tempo di vivere, pure se delegando
il controllo del flusso dell’urina ad un sacchetto
di plastica. Questo film racconta la storia di uno
che della vita rifiuta la consapevolezza, e che
messo di fronte alla morte si trova invece costretto
a cercare un senso da dare alle cose, che forse
è il solo scopo della nostra esistenza. A prescindere
dal fatto che quel senso continuerà a sfuggirci,
che forse non c’è un principio di tutto, che forse
c’è, che forse ci sta prendendo in giro. Tutto questo
lo racconto come in un fumetto, con personaggi vestiti
sempre allo stesso modo che sono la parodia di personalità
reali, come quello che faceva il palo nella banda
dell’Ortica nella canzone di Enzo Janacci, un altro
che ha eletto a mezzo di comunicazione più efficace
il paradosso, con buona pace del telefono cellulare,
un altro che in un mondo decente svetterebbe in
testa alle classifiche degli album più venduti e
che invece se ne sta a casa gonfio di malinconia,
con un disco nuovo che nessuno vuol produrgli, mentre
un chitarrista dotato di cui non faccio il nome
vende migliaia di copie del suo “I grandi successi
di Alex Britti” con un trascinante brano intitolato
La vasca, ove sostiene la tesi secondo la quale
il massimo della vita sarebbe tuffarsi e rituffarsi
nella vasca da bagno e schizzare l’acqua tutto intorno,
in antitesi a quanto affermano i celebrati “Lunapop”,
ossia che la cosa più bella sia andare in giro con
il cielo sotto i piedi mentre la Vespa Special ti
risolve i problemi (Sì? e come? Ma intanto vendono
milioni di dischi anche loro). Chiedo scusa della
digressione, ma il punto, tornando alla scelta del
registro del film, è che io sono cresciuta ascoltando
i dischi dei miei genitori, quelli con i paradossi
fulminanti di cui sopra, quelli che ti spiegano
che bisogna guardare ogni giorno se fuori piove
o c’è il sole per capire se domani si vive o si
muore e che Dio è morto nelle auto prese a rate
e che dai diamanti non nasce niente, dal letame
nascono i fior. Quelle che insomma andavano dritte
al senso della vita. Ecco, la mia scuola è quella
lì, ne consegue che più che il buco dell’ozono e
lo sfoggio sconsiderato di smalto brilluccicante
per i piedi (che sono alcune delle conseguenze)
di questo mondo mi sconcerta la mancanza di consapevolezza,
la risoluzione a non pensare - ribadita dai cantautori
del momento - in quanto pensare è un’attività che
richiede tempo e fatica spesso sprecata e non è
deducibile dalle tasse. Da Otello, l’osteria romana
che rifocilla i reduci del nostro cinema migliore,
mentre le signore sgombrano il tavolo per giocare
allo scopone, si fa un gran parlare del perché il
neorealismo non funziona più come una volta. Un
tempo, si dice, la gente scappava dal cinema urlando
quando un treno in corsa attraversava il proiettore,
oggi son tutti lì che sgranocchiano pop-corn mentre
schizzano da ogni parte gli arti mozzati dei soldati
americani sbarcati in Normandia. Ma questo è un
po’ come rimpiangere la mezza stagione. Il punto,
mi pare di poter dire, è che la realtà oggi è sovresposta.
La realtà che vediamo è troppa, e troppo irreale
per essere credibile. E non al cinema, dove non
va nessuno, o sui giornali, che non legge nessuno,
ma in televisione. La morte, quella vera, non fa
più scandalo. Figuriamoci la vita. Mostrarla per
quello che è non rende partecipe nessuno: non diverte,
non commuove, non interessa. E allora ecco, una
cresciuta con l’ostinazione di dare un senso alle
cose, tenta di battere altre strade, ci prova col
metodo delle canzoni di una volta, con l’ironia,
con le metafore e i paradossi: “L’unico modo per
penetrare l’essenza delle cose”. Le citazioni sono
il mio forte. E’ quando devo esprimermi con parole
mie che mi trovo in difficoltà.
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Notizie
sull'autore :
Ho una vita molto poco avventurosa, dunque
saprò cavarmela in meno delle canoniche mille e
800 battute. Anche perché non tutte farebbero ridere.
Sono stata una bambina molto precoce, il giorno
in cui ho capito definitivamente come sarebbero
andate le cose mettevo per la prima volta piede
all’asilo. Ero lì, con tutti i bambini, è all’improvviso
mi è scappata pipì. La suora mi ha detto che il
bagno era esattamente di fronte alla nostra aula,
non potevo sbagliare, diceva lei. Volevo chiederle
di accompagnarmi ma la regola era mai contraddire
gli adulti, specie quelli in divisa. E’ che quando
mi trovavo in un posto nuovo non mi muovevo di un
passo per paura di perdere la strada. La mia non
era una fissazione infantile, mi perdevo sul serio.
Ed è imbarazzante sentirsi continuamente chiamati
dall’altoparlante dei supermercati, come una qualunque
offerta speciale. Mi sono affacciata fuori dall’aula
per valutare la fattibilità dell’impresa. Ho Verificato
che, in effetti, di fronte a me c’era un’unica porta.
Potevo farcela. Sono andata verso la porta, la ho
aperta, ho assunto la tipica posizione windsurf
per non venire contagiata dai germi che abitano
sulla tavoletta del gabinetto e poi ho fatto per
uscire. Sulla soglia del bagno ho vacillato. Di
fronte a me c’erano due porte. Un rischio che non
avevo calcolato. Le etichette erano indecifrabili
per una bambina di quattro anni, e io non avevo
nessun elemento per stabilire quale delle due porte
conduceva alla mia aula. A parte aprirne una a caso
e verificare, ma ci volevano ancora molti anni per
capire che al mondo era consentito commettere errori,
a patto di essere la sola a pagare. E così, mi sono
fatta indicare dall’istinto quale porta aprire e
mi sono diretta verso quell’altra. In genere funzionava.
Quella volta, no. C’erano bambini piccolissimi e
maestre sconosciute. Era così imbarazzante. Mi sono
detta: “Mi siedo qui, qualcuno mi noterà, capirà
che sono nel posto sbagliato e mi condurrà al sicuro”.
Non se ne è mai accorto nessuno. Ogni tanto continuo
a sperare che arrivi qualcuno: “Santo cielo, c’è
stato un equivoco, questo non è posto per lei, venga
che la accompagno in un mondo dove i giornali non
dedicano tanta attenzione ai Savoia...” Ma niente.
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